
Presentazione del libro “La quercia e la rosa” di Ludovica de Nava
Nuoro, 25 giugno 2015, presentazione del libro di Ludovica de Nava, La quercia e la rosa, Il Maestrale, Nuoro 2015.
Il libro di Ludovica de Nava, La quercia e la rosa, uscito recentemente da Il Maestrale, va ad aggiungersi a altri due libri che contengono lettere di Grazia Deledda, Lettere ad Angelo de Gubernatis (1892-1909), uscito nel 2007 a cura di Roberta Masini presso il Centro di studi filologici sardi/CUEC, e Amore lontano. Lettere al gigante biondo (1891-1909), uscito da Feltrinelli nel 2011 a cura di Anna Folli. Va ad affiancarsi ai primi due libri, ma anche ad allontanarsene per un motivo che va detto subito: La quercia e la rosa non riporta infatti soltanto le lettere di Grazia Deledda, come fanno gli altri due libri.
Nel libro di Ludovica de Nava ci sono anche le lettere a Grazia Deledda di Giovanni de Nava, il nonno dell’autrice, lettere che tuttavia non sono state scritte da lui, ma dalla nipote che ci consegna un’opera che è a metà un epistolario, perché le lettere di Grazia sono quelle autentiche, ma anche un romanzo perché quelle di Giovanni sono inventate. Il libro è dunque un romanzo, un’opera di finzione, ma a metà. Non esistendo più le lettere di Giovanni a Grazia che sono andate perdute o distrutte, Ludovica le ha ricreate dando vita e parola a un giovanissimo poeta calabrese che nel maggio del 1894 inviò una lettera alla giovane ventitreenne di Nuoro che già da tempo aveva raggiunto fama nazionale e stava per diventare famosa anche nel resto dell’Europa.
Ecco la risposta di Grazia alla prima lettera del giovane poeta ventunenne.
Nuoro, 20 maggio 94
Egregio amico,
Mi permetta di chiamarla così.
Rispondo con piacere alla sua lettera gentile, e le avrei risposto prima d’oggi se non me lo avesse impedito una gita che ho fatto negli scorsi giorni, fuori di Nuoro.
La ringrazio dunque delle sue cortesi espressioni a mio riguardo, e son lieta di sapere ancora da lei che nei miei scritti emerge un po’ del mio carattere.
Per esser più amici mi permetta che le parli un po’ di me. Molti mi credono una creatura fantastica, strana e aristocratica, altri invece mi prendono per una maestrina perduta in una scuola comunale di montagna. Non sono nulla di tutto questo. Sono, tutto semplicemente una signorina qualunque piena di buon senso comune, una piccola signorina bruna, con begli occhi neri, così piccola, sottile e lieta da sembrare una bambina.
Appartengo a una famiglia di quei prinzipales sardi che io metto spesso nei mei racconti: gente bizzarra, tra il patriarcale e il selvaggio, che non appartiene né alla borghesia né al popolo né alla nobiltà. Forma una casta a sé, e quando, come la mia famiglia, può disporre di un patrimonio più o meno vasto, ha tutta la prepotenza boriosa che, più d’ogni altra cosa, accusa l’origine spagnuola.
Io studio e scrivo molto. Cosa lei ha letto di mio? Ora devo pubblicare i Racconti sardi, un romanzo pure sardo e un volume di tradizioni popolari, quelle tradizioni di cui lei appunto mi parla, dicendo di amarle tanto.
Ed ora parliamo un poco di lei.
La lettera di Grazia è avvincente e verrebbe voglia di leggerla tutta. Mi fermo per notare o ricordare sulla scorta delle informazioni che lei stessa ci fornisce, che Grazia stava per pubblicare i Racconti sardi che uscì di lì a poco presso la casa editrice e tipografia Dessì con la dedica “Al professor Angelo de Gubernatis”, nello stesso anno anche il volume sulle Tradizioni popolari di Nuoro. Il romanzo d’ambientazione sarda era ancora intitolato L’indomabile e sarebbe uscito nel 1896 da Speirani con il titolo de La via del male, il primo vero romanzo d’ambientazione sarda su cui la scrittrice ritornerà con ritocchi e correzioni per parecchi anni. Nel 1896 uscì anche Anime oneste con la prefazione di Ruggiero Bonghi che sancì la fama nazionale della giovane scrittrice. Quando le scrive la prima lettera, Giovanni ha letto solo alcuni racconti e ha appena comprato ma non ancora letto Fior di Sardegna. Grazia invece è già consapevole che la sua carriera di scrittrice ha preso il volo e raggiungerà le vette più alte che uno scrittore possa immaginare. E lei le aveva per l’appunto già immaginate.
In questo periodo lo scambio epistolare con de Gubernatis era diventato talmente intenso, soprattutto da parte dell’anziano letterato, studioso e indologo di fama mondiale allora, oggi quasi dimenticato, che Grazia minacciò proprio in quei giorni di interrompere la corrispondenza con lui.
Qualche mese prima la stessa minaccia l’aveva rivolta a un altro corrispondente. Il 19 febbraio aveva comunicato a Stanis Manca che forse quella era l’ultima volta che gli scriveva. Quello con Stanis Manca è il sogno “pazzo” da cui non riesce a venir fuori, vorrebbe da lui la conferma che è una “stolta”, che non deve sperare in nulla. Aveva invece appena riletto tutte le sue lettere e non poteva non pensare che lui l’aveva amata. Nella lettera successiva gli scrive che sente che un periodo importante della sua vita è finito, gli rivela che non lo ha amato per la gigantesca persona, e che vorrebbe da lui solo un’amicizia. Gli chiede infine di restituirle le sue “strane” lettere.
Ma Stanis non restituirà le lettere.
Dopo un breve periodo di silenzio, il 3 giugno risponde a De Gubernatis, al grande sognatore, all’angelo che la trascina in volo, accetta le sue carezze aeree e vuole fare la pace; e gli comunica che non attraversa un periodo facile, la madre è malata e lei stessa si sente sofferente: “Talvolta cado in profondissime tristezze inesplicabili e strane visioni nere passano intorno a me. Io non so perché queste tristezze. Sai una cosa? Io forse sposerò un poeta calabrese”.
Il forse è sottolineato per accentuare l’effetto del dubbio. Mi ha colpito questa capacità visionaria della giovane riguardo al futuro sposo che naturalmente non ne sa ancora nulla.
E ancora scrive a de Gubernatis: “È un artista che coltiva le sue terre, molto giovane per me, forse, e troppo pieno di fede, e di speranze. Non ne so nulla di preciso. L’avvenire, te l’ho detto, m’impaura e mi rattrista, e gran parte di me morrà il giorno in cui potrò vedere le tristi montagne sarde sfumare dal mio orizzonte… Ma non parliamone ancora. Io mi smarrisco pensandoci”.
Il 9 giugno ritorna a parlare ad Angelo del giovane poeta calabrese precisando che non gli ha scritto che va sposa, gli ha detto che forse sposerà un giovane poeta calabrese.
“No, tu forse non lo conosci, e neppur io lo conosco bene. E appunto perciò ti ho detto forse. Bisognerà che io prima lo conosca bene. Egli mi fa la corte, dignitosamente e seriamente, ma io non gli ho dato alcuna parola d’incoraggiamento. È un buon poeta, e mi piace perché, oltre l’arte, coltiva le sue terre come io vorrei che le coltivassero tutti i poeti sardi. Ma questo ancora non basta per completare il mio ideale. Il mio pretendente è anche nobile di famiglia, con un bel nome. È d’origine spagnuola. Ma non basta, non basta ancora. Manca il più, manca l’essenziale, la forza motrice che solleva i monti e i mari, che fa sparire ogni lontanaza e ogni mistero. Manca l’amore. Io non sono innamorata di nessuno… ora, e non so, non so proprio se sarà il giovanissimo poeta della Sila che farà svegliare il mio cuore assopito in un sogno profondo”.
Di lì a poco tempo l’amore esploderà, così almeno pare, sollecitato dalle rime in dialetto calabrese che Giovanni le dedica. Insomma, come si può vedere, ci sono tutti gli ingredienti del romanzo: lui bello e giovanissimo che le spedisce versi inneggianti agli “occhiuzzi niri, latri e malandrini”, versi carichi di rose lisciandrine, lei si lascia trascinare dall’ispirazione, dalla poesia e dagli ideali che lui le trasmette, eppure non perde il contatto con la realtà e dalle parole passa, forse troppo in fretta, ai fatti, vedendo profilarsi all’orizzonte un possibile marito. Era una ricerca che condivideva con le donne di tutta Europa. Seppure un secolo dopo, si comporta infatti, né più né meno, come la signora Bennet di Orgoglio e pregiudizio e il romanzo di Jane Austin lo ribadisce sin dall’incipit: “È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un bel patrimonio debba aver bisogno di una moglie”.
Dopo poco meno di un mese dalla prima lettera anche Grazia vorrebbe già un fidanzamento ufficiale.
Il libro di Ludovica de Nava, grazie all’invenzione fantastica e una scrittura capace di ricreare le suggestioni epistolari dell’epoca, ci fa calare completamente nell’atmosfera della fine dell’Ottocento, ricostruendo il tassello di un mosaico che era andato perduto. Al posto di quello spazio vuoto, di quel tassello mancante, colloca gli umori, le aspirazioni, le prime imprese amorose di un giovane che in Grazia ha trovato una fonte straordinaria di ispirazione e un’interlocutrice insperata. Ludovica gli dà un volto, ne tratteggia tutto il fascino e, con molta sincerità, rivela anche che lui sin da subito si rende conto che si tratta solo di un sogno e che nei suoi vent’anni è più affascinato e conquistato dalla realtà in carne ed ossa delle belle ragazze che gli capita di incontrare. Le lettere vere di Grazia, collocate in questo nuovo contesto, mostrano ancora di più la complessità dei suoi sentimenti, l’ambivalenza del sogno di evasione e di fuga dal suo mondo, la fedeltà a un ideale a cui non verrà mai meno, l’amore per la letteratura, per la verità della letteratura. Anche queste, insieme a tutte le altre lettere scritte in quel periodo ai suoi vari corrispondenti, tra cui tentava di individuare il possibile marito, vanno a tratteggiare uno straordinario ritratto dell’autrice da giovane.
Un’ultima considerazione: per uno strano gioco del destino, quelle lettere che Grazia implorò che le fossero restituite, sono ritornate più di cento anni dopo nella casa da cui erano state spedite. Erano rimaste per decenni ferme nella Biblioteca del Burcardo a Roma, in una cassetta della Biblioteca nazionale di Firenze, in un archivio privato calabrese. E sono ritornate a Nuoro nella casa di Grazia in forma di libri.