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Nella Sardegna di Grazia

di Rossana Dedola

« Intendo ricordare la Sardegna della mia fanciullezza, paese ancora per me di mito e di leggenda. Una di queste leggende afferma che l’Isola è un residuo scampato a un cataclisma che in tempi remotissimi fece sommergere nell’oceano la grande Atlantide: continente già di avanzata civiltà e di costumi nobilissimi. E, certo, nei costumi e negli usi dei centri anche più solitari della Sardegna, nelle loro feste, nei loro riti, sopravvivono tradizioni originali che risalgono ad epiche anteriori alla civiltà orientale e a quella portata nell’isola dalle prime dominanzioni straniere

Nulla di preciso si sa ancora, per esempio, dei nuraghes, i misteriosi monumenti che solo in Sardegna sopravvivono intatti e potenti: ma soprattutto ma soprattutto la saggezza profonda ed antica, il modo di pensare e di vivere, quasi religioso di certi vecchi pastori e contadini sardi, nonostante la loro assoluta mancanza di cultura, fa credere ad una abitudine atavica di pensiero e di contemplazione superiore della vita e delle cose di là della vita. Da alcuni di questi vecchi, conosciuti nella mia prima fanciullezza, ho appreso verità e cognizioni che nessun libro mi ha rivelato più limpide e consolanti. Sono le grandi verità fondamentali che i primi abitatori della terra dovettero scavare da loro stessi, maestri e scolari ad un tempo, al cospetto dei grandiosi arcani della natura e del cuore umano… »

Il mio viaggio attraverso la Sardegna raccontata da Grazia Deledda non seguirà un unico itinerario, ma si dividerà in più percorsi durante i quali visiterò la Barbagia, la Baronia e la Gallura tentando di seguire l’andamento ciclico che ritroviamo nei suoi romanzi. La Sardegna di Grazia Deledda non è solo quella della stagione estiva riarsa dal sole, la sola immagine che molti turisti conoscono, ma anche quella dell’autunno, il cabudanne, l’inizio dell’anno agricolo, dell’inverno mite sulle coste e rigido sulle alture che si ricoprono di neve costringendo i pastori alla transumanza, e la primavera con la rinascita della natura.

L’estate riarsa l’ho sperimentata l’anno scorso, quando sono andata a Galtellì. In quei giorni il termometro aveva raggiunto quasi i quaranta gradi e sotto quella cappa di calore che rendeva difficoltoso aggirarsi per i vicoli del paesino in cui Grazia Deledda aveva ambientato Canne al vento, cercando di scorgere giù in pianura il Cedrino che pareva ridotto a un fiumiciattolo,ho capito che non potevo affrontare questo viaggio soltanto in piena estate e non solo perché la temperatura lo limitava a pochi assurdi tentativi di camminare all’ombra delle case. Senza rendermene conto mi ero trovata davanti all’abitazione in cui aveva Grazia aveva soggiornato con le tre sorelle che le avevano ispirato le figure dame Pintor, ma era stata una sosta brevissima, il tempo di fissare lo sguardo verso l’interno attraverso i vetri delle finestrelle del pianterreno e già, incalzata dall’arsura, mi ero incamminata in direzione della chiesetta romanica che si trova ai margini del paese col campanile puntato verso l’azzurro terso del cielo e verso il monte di Galtellì, il Tuttavista. Anche i fantasmi degli antichi nobili che si aggiravano ancora tra le rovine del castello sembravano evaporati col caldo. Ecco, proprio in quel frangente sotto il tormento di quell’estate torrida, mi era parso più giusto ritornarci anche in altre stagioni e visitare quei luoghi come li aveva conosciuti Grazia nelle trasformazioni segnate dal cambiamento delle stagioni. Il caldo autunno l’ho ritrovato dopo pochi mesi a Dorgali dove sono andata a metà ottobre arrivando sino a Cala Gonone dove molti bagnanti facevano il bagno tranquillamente. E a dicembre sono arrivata a Olbia con il termometro che segnava 20 gradi di primo pomeriggio.

Ma sarà anche un viaggio all’interno dei romanzi della prima scrittrice che ha parlato della sua terra e l’ha fatta conoscere al mondo, ha dato la parola a una società “primitiva” che tramandava le sue leggende e i suoi racconti, la propria identità attraverso racconti orali, rituali, feste, usanze, ma non attraverso la scrittura. C’erano ancora poeti che, come in altre parti del Mediterraneo, sapevano improvvisare in rima e cantare i fatti della vita quotidiana prendendo in giro le autorità e criticando scelte politiche con cui non erano d’accordo, c’erano alcuni scrittori che avevano dedicato dei romanzi alla Sardegna, Il muto di Gallura e La bella di Cabras di Enrico Costa e dato vita a un’idea dell’identità sarda che riguardava altre parti dell’isola, non solo quella narrata da Grazia Deledda. Sin dall’Ottocento Enrico Costa incoraggiava il viaggiatore che arrivava in Sardegna a non trascurare «la festa dei Candelieri a Sassari, la festa di Sant’Efisio a Cagliari, la pesca del tonno nelle tonnare di Carloforte, la grotta di Nettuno in Alghero, le miniere di Montevecchio e di Monteponi in Guspini ed in Iglesias; una gita sul Gennargentu e sui monti di Limbara a Tonara ed a Tempio; una passeggiata in barca sul fiume di Bosa; e la pesca dei muggini nelle peschiere d’Oristano». 1

Eppure sino ad allora nessuna donna nata in Sardegna aveva osato prendere la penna in mano per mettersi a scrivere. Gli abitanti di Nuoro sembrarono aver paura di quel semplice gesto e non sopportare che la giovanissima Grazia si mettesse a raccontare o meglio a spifferare i fatti loro. La scrittrice si sentì ben presto non amata dai suoi concittadini, ma sarebbe troppo semplice sostenere che si trattava di un sentimento reciproco, perché dopo il trasferimento a Roma continuò ad andare in Sardegna tutte le estati almeno sino agli anni del primo dopoguerra affrontando un viaggio in nave non proprio comodo per visitare alcune parti dell’isola a cui voleva dedicare un’opera. Ai romanzi scritti quando ancora non aveva lasciato la Sardegna, La via del male, Il tesoro, La giustizia, e Il vecchio della montagna, uscito nell’anno del trasferimento a Roma,seguirono quelli che compose dopo aver fatto ritorno nell’isola soltanto durante i mesi estivi, Elias Portolu, Dopo il divorzio, Cenere, L’edera, Sino al confine, Il nostro padrone, Nel deserto, Colombi e sparvieri, Canne al vento, Le colpe altrui e la raccolta di novelle Chiaroscuro e infine i romanzi dedicati alla sua terra senza avervi più fatto ritorno, Marianna Sirca, L’incendio nell’uliveto, La madre, Il Dio dei viventi, Il vecchio e i fanciulli, La chiesa della solitudine e Cosima. Per tutta la vita dunque aveva continuato a interrogarsi e a inseguire in perfetta solitudine storie legate a questo misterioso lembo del Mediterraneo. Oggi la situazione è completamente cambiata, in Sardegna ci sono tantissimi scrittori e anche tante scrittrici, l’isola del “silenzio” si è trasformata nel corso degli ultimi anni in una terra che si racconta al mondo. È successo in piccolo quanto è avvenuto dagli anni Novanta ad oggi in India. Fino ad allora il subcontinente indiano era ancora considerato dai viaggiatori occidentali sconosciuto, ma quando gli scrittori indiani hanno cominciato a parlare delle diverse regioni dell’India, quel mondo su cui gli occidentali proiettavano la loro idea dell’India, ha cominciato a mostrare mille volti. Nel mio libro, La valigia delle Indie e altri bagagli ho analizzato le opere degli scrittori occidentali che avevano viaggiato in India e che avevano scritto un reportage di viaggio, ognuno andava a cercare la propria India e qualcuno è riuscito anche a trovarla. Ma che cosa c’entra l’India con la Sardegna, mi si potrebbe obiettare. In Sardegna era capitato un fenomeno simile, prima che ne parlassero gli stessi scrittori sardi, e la Deledda fu la prima scrittrice, era stata raccontata da viaggiatori stranieri come un’isola misteriosa e selvaggia, come scrisse Sergio Atzeni in Raccontar fole, in cuiscrittori non sardi, italiani, tedeschi, francesi, inglesi parlavano dei sardi del passato, che erano stati sempre raccontati «da un occhio esterno»

Anche Massimo Onofri, nel suo libro dedicato alla Sardegna, Passaggio in Sardegna, si è in qualche modo riferito all’India ricalcando il titolo di un famoso romanzo del grande romanziere e critico Edward Morgan Forster. Il mio riferimento all’India nasce piuttosto dalla mia diretta esperienza di viaggio, devo infatti confessare che proprio durante i miei viaggi in India mi ritornavano spesso in mente immagini che avevo visto o sensazioni che avevo provato durante la mia infanzia: le donne che cucinavano accucciate per terra, o che lavavano i panni al fiume, o che si facevano il bagno in mare tutte abbigliate con i vestiti gonfiati dall’acqua. Dopo aver provato un forte senso di estraneità, gradualmente mi ero accorta che stranamente avvertivo una familiarità con le scene che vedevo davanti ai miei occhi e lentamente mi sono accorta che avevo ritrovato dei ricordi di tanti anni prima. Era riaffiorato un sentimento scomparso, una vicinanza con la terra che avevo dimenticato, la semplicità di gesti essenziali e necessari dove ciò che è superfluo non ha posto. Quelle cucine primitive col fuoco maneggiato e controllato abilmente erano in grado di cucinare piatti straordinari, dolci mai assaggiati dopo. Tra questi dolci metto tra i miei preferiti il “bianchino”, una meringa che al suo interno resta morbida, dal sapore di limone e mandorla. E il batter dei panni sulla sponda del lago di Udaipur mi ha fatto pensare alle ragazze che avevo visto a Illorai sciacquare e risciacquare lenzuola tessute a mano sulle sponde di un ruscello.

Un altro viaggio mi ha fato scoprire qualcos’altro sulla Sardegna. In Wisconsin dopo una traversata in traghetto sul Missisipi ho avuto modo di assistere ad alcune danze degli indiani d’America, il loro modo di svegliare la madre terra battendo ritmicamente i piedi mi ha richiamato il passo delle danze tradizionali sarde. Lì con i loro bellissimi copricapi di penne erano gli uomini a danzare, in Sardegna sono invece donne e di uomini che, intrecciando le mani, formano un cerchio sacro e danzano in tondo sino quasi a raggiungere l’ebbrezza. Qualcuno ha parlato di riti dionisiaci, attraverso le danze è come se si perdessero i confini della realtà conosciuta per ritrovare quel centro che permette all’identità di tutto il villaggio di venire rafforzata. E un altro ricordo d’infanzia si è fatto largo nella mia memoria. A Sassari si festeggia ogni anno in maggio la Cavalcata Sarda. Tutti i paesi della Sardegna sfilano coi loro costumi tra file di persone applaudenti. Quella volta ci fu un evento straordinario: avevano invitato come popolo ospite proprio gli indiani d’America e i sardi li sfidarono nell’ipodromo cittadino con corse di cavalli e giochi di acrobazie. In piedi in due sulla groppa di due cavalli poi in tre, poi in quattro facevano vedere che cosa erano capaci di fare sui cavalli al galoppo,. Sardi e indiani, se non mi ricordo male, senza selle. Fu uno spettacolo entusiasmante che si concluse con acquisto forzato da parte di mia madre dietro mia insistenza di pupazzi e collane indiane che custodii con grande venerazione.

Quando mi iscrissi all’Istituto Carl Gustav Jung di Zurigo, i miei professori analisti mi esortarono a occuparmi della mia terra e così cominciai uno studio durato vari anni che ho proseguito anche dopo essere diventata a mia volta analista. Ho tenuto per vari anni delle lezioni agli studenti dell’Istituto Jung e successivamente dell’International School of Analythical Psychology e sempre mi ha colpito la reazione degli studenti che provenivano da diverse paesi del mondo e si mostravano estremamente interessati nei confronti di una isola così poco conosciuta al contrario di Malta, Creta, Cipro, ma che nascondeva misteri, innumerevoli torri preistoriche, tombe megalitiche dalle steli altissime e usanze che si perdevano nel tempo. Naturalmente cominciai a occuparmi anche di Grazia Deledda e all’improvviso mi accorsi dello stupore con cui gli studenti seguivano il racconto della sua vita, non solo il suo straordinario destino di donna, la seconda cui fu assegnato il premio Nobel dopo la svedese Selma Lagerlöf, capace di ottenere il premio più ambito in campo letterario pur avendo frequentato solo la quarta elementare, ma anche il fatto che nei suoi racconti quella terra antichissima, quei riti legati al fuoco, all’acqua, alla rinascita della primavera, i riti funebri e lo strano rituale dell’Argia che metteva allo scoperto come i tarantellati sardi fossero soprattutto uomini e non donne, si riempivano di suoni, di odori, di sapori, di emozioni, di destini complessi pur in una dimensione di vita apparentemente semplice.

Allora non feci caso ai pericoli cui potevo andare incontro inoltrandomi in quel passato che aveva conservato tracce molto forti anche nel presente, non mi ero preoccupata degli stereotipi di una Sardegna ormai scomparsa, non inorridii pensando ai gambali, al fustagno e all’orbace, anzi, mi sarebbe piaciuto saperne di più, capirne la lavorazione, addirittura mi venne in mente una fantasia: che uno stilista contemporaneo potesse inserire in una gonna una parte plissettata come le gonnelle di orbace o tentare accostamenti audaci di colore come nel costume di Desulo o Orgosolo.

Non era però un ritorno facile perché anch’io ero andata via dalla Sardegna molto giovane e con molte resistenze mi apprestavo a quel viaggio di ritorno. Non mi aveva convinto il mio analista, il Dr. Dieter Baumann, quando mi aveva detto che forse mi sarei dovuta far fare il tradizionale costume sardo. Non gli avevo rivelato che costava un patrimonio. Baumann aveva un modo non convenzionale di fare l’analisi, spesso mi ritrovavo a passeggiare con lui lungo le sponde del Reno tra i rettangoli gialli di fiori di colza che attraversavano il verde dei prati e vedendo come il fiume scorreva placido sentivo una grande calma interiore e che qualcosa in me inseguiva la corrente. Era il nipote di Jung, e come suo nonno era un conformista completamente anticonformista.

Poi feci un sogno. Mi vedevo seduta in mezzo a banchi di sabbia bianchissima, l’aria tersa, azzurra, purissima, e in mezzo a quella sensazione molto forte di vitalità vidi comparire dal nulla un cavaliere su un cavallo. Era vestito di fustagno, credo, non ricordo bene. Sarebbe potuto sembrare un sogno banale, il cavaliere sul cavallo bianco, se non fosse stato il sogno finale di una serie di sogni ricorrenti in cui vedevo un branco di cavalli selvaggi che procedevano al galoppo ma che, arrivati davanti a un rigagnolo che potevano superare facilmente con un balzo, si fermavano paralizzati e cominciavano a cadere gli uni sugli altri. Con il mio primo analista, Giuseppe Maffei, ci eravamo soffermati molto su quei cavalli incapaci di procedere pur avendone tutta la forza e avendo davanti un ostacolo inesistente. Poi finalmente affiorò il ricordo che dava alla mia Sardegna una tinta tutta particolare. Ero nel porto di Cagliari, ero piccola, ma non so più se avevo sei o sette anni. Improvvisamente vidi che con una gru scaricavano dalla nave dei cavalli che pendevano legati alle corde sostenute dalla gru troppo piegati su se stessi e dalle pance aperte uscivano corde, grosse corde, almeno a me erano parse delle corde. Dovevo ritornare in Sardegna attraversando il dolore che suscitò in me bambina quell’immagine. Avrei trovato la mia isola? E avrei raggiunto mai l’isola di Grazia?

1 Cfr. Susanna Paulis, Identità sarde nell’opera di Enrico Costa,

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