Il Re che amava le rime
Un giorno di settembre, o forse di ottobre, un Re si svegliò molto presto, proprio nel momento in cui la prima allodola cominciava a gorgheggiare. Era un Re molto vecchio, così vecchio che nessuno degli amici, parenti e dignitari conosceva esattamente la sua età. Dalla sua lunga barba bianca, cosi lunga che preferiva portarla intrecciata in una grande treccia, si arguiva che poteva avere circa centoquaranta anni.
Avendo raggiunto tale veneranda età, il nostro sovrano era un Re all’antica, si abbigliava come cento anni prima, ma che dico cento, duecento, trecento, quattrocento anni prima, con una calzamaglia a due colori su corti calzoni sbuffanti, un mantello rosso porpora col collo d’ermellino e una corona tutta d’oro adorna di rubini grandi come i grandi rubini delle corone che i re portano nelle fiabe.
Il Re amava le ragnatele che pendevano dal soffitto, i ragnetti che circolavano sul pavimento di marmo a rombi bianchi e neri, e anche i topolini che sbucavano da qualche fessura del muro e sparivano in qualche altra fessura del muro; e poiché non odiava la polvere, non detestava la sporcizia e le ragnatele non gli provocavano allergie, tutte quelle bestiole potevano vivere tranquille nel suo regno. Anzi, se un occhio scrupoloso si fosse preso la briga di scrutare attentamente la sua barba avrebbe sicuramente visto che essa diventava spesso una piacevole altalena per qualcuna delle creaturine che ho nominato prima.
A proposito non vi ho ancora detto dove era il castello. Il castello sorgeva su un alto colle a punta, incoronato da pioppi bianchi; ed era così alto e appuntito che molto spesso era difficile scorgerlo da lontano perché le nuvole andavano a posarsi volentieri sulle cime ondeggianti di quell’arborea corona. Così il Re indisturbato e felice poteva dedicarsi completamente alle occupazioni che più gli piacevano. Ma quali erano queste occupazioni? Amava il Re le rime, i giochi di parole e persino gli indovinelli. Talvolta se li recitava tra sé e sé, ad esempio quella mattina s’era svegliato canticchiandosi: “Né amare amare amarene, né amare amare amarene”. Oppure declamava versi nella grande sala del trono sotto l’enorme lampadario di cristallo che lo ascoltava con centinaia di riflessi e di tintinnii cristallini. In quelle ore mattutine i ragnetti non si muovevano e stavano a sentire, anche le mosche, le farfalle e gli uccellini zitti zitti, fermi fermi seguivano i movimenti della lunga barba che, accompagnando rime baciarsi, intrecciarsi e incatenarsi, cominciava a spazzare il pavimento e una polverina, una nebbiolina di pulviscolo circondava il vecchio Re come fa qualche volta la neve soffiata via dalla cima delle montagne dal dio del vento.
Appena si sentì ben sveglio, il Re aprì con una chiave d’oro uno dei cento cassetti segreti del grande armadio nascosto in una parete della sala del trono e con precauzione tirò fuori un cofanetto d’avorio e d’oro chiuso da un lucchettino d’argento. Il Re si frugò in una delle tasche profondissime che stavano all’interno del mantello regale e vi pescò una chiavetta d’argento con cui aprì il cofanetto. Dal cofanetto estrasse una scatolina di cristallo chiusa a chiave. Si frugò nell’altro tascone e in fondo in fondo trovò una chiavettina di cristallo, tenendola con la punta delle dita la infilò nella serratura che fece: “click”.
“Bene”, disse il Re col solito buon umore, “Vieni fuori, mio pennino!” E un pennino piccolo piccolo saltò fuori e rimase ritto ad aspettare. “Bene, bene”, disse il Re con il solito buon umore, “Vieni fuori, penna mia!” E una semplice penna d’oca spiccò un balzo e atterrò accanto al pennino. Era un po’ fuori moda anche in fatto di penne e pennini il Re, ma perché preoccuparsene dal momento che nemmeno lo sapeva.
“Miei signori…”, cominciò il Re col suo solito buon umore.
E allora la penna si rovesciò, il pennino si infilò sulla sua punta e con voce appuntita da pennino chiese: “Che cosa vuoi scrivere oggi, mio Re, tuo Sovrano, sua Maestà?” E la penna aggiunse: “Con ghirigori, in corsivo o tutto MAIUSCOLO, sua Maestà, tuo Sovrano, mio Re?” Ma il Re non rispose, frugò ancora in una delle tasche profondissime del mantello e tirò fuori una boccettina, la sollevò portandosela davanti al naso e lesse a voce alta: “Inchiostro per rime baciate. Bene, bene, bene, miei signori, al lavoro!”, disse finalmente il Re il cui buon umore era ormai alle stelle, anche se erano ormai le sei del mattino e le stelle a una a una erano già sparite in corteo dietro la luna. Nel frattempo il cielo, svegliandosi dalla lunga nottata, stava diventando bianco come un foglio di carta.
“Oh rime, baciatevi, oh rime, baciatevi! Come sposina e sposino abbracciatevi!”, cantò il Re mentre la penna d’oca faceva un balzo nella boccetta dell’inchiostro intingendo il pennino, poi con un altro balzo finì su una pergamena di cartapecora che con un lieve, lievissimo belato si era distesa sulla massiccia scrivania di legno di rose che sua Maestà aveva voluto mettere nella sala del trono proprio davanti a una finestrella a bifora.
E le rime sparse dal pennino sulla pergamena cominciarono ad abbracciarsi e a baciarsi. “Sss!”, fece il Sovrano al pennino che sfregando sulla cartapecora faceva ridacchiare il foglio come una pecorella. “Sss”, ripetè il Re mettendo un dito davanti alla bocca e nello stesso tempo tendendo l’orecchio all’ascolto. “Si baciano, si baciano!”, esclamò allora pieno di gioia e saltellando per la contentezza, senza accorgersi che alcune goccioline di inchiostro gli erano cadute sul barbone facendogli qualche azzurra macchiolina che rideva birichina.
I ragni, i topolini e le altre creaturine che ho nominato prima, contagiati dall’entusiasmo del Sovrano, presero anch’essi a baciarsi e ad abbracciarsi per poi fermarsi di colpo e stare a sentire zitti zitti, mentre alcune d’inchiostro goccioline macchiavano la barba, birichine.
“Oh baciate, rime, baciate! Oh volate, rime, volate”, cantava il Re sporgendosi dalla finestrella a bifora con la penna d’oca in una mano e con la boccettina d’inchiostro nell’altra mano. Come se volesse scrivere una rima sul foglio bianco del cielo. E quell’inchiostro magico, perché era proprio magico, rimase sospeso a mezz’aria in attesa non si sa di che cosa. Intanto si sentì uno scampanio e poi bussare alla porta. Era il gran ciambellano di corte che veniva a portare di buon mattino la colazione al Re: “Buon risveglio, mio Sovrano, ecco che entro con il vassoio in mano. Metto qua la colazione, è tutto preparato a perfezione: un bell’uovo al tegamino che è stato cotto a puntino dal nostro bravo cuoco Gelsomino; prosciutto affumicato stupendamente accompagnato da tante fette di pane tostato; burro di montagna e miele di castagna; succo d’arancia per far contenta la bilancia. Il nostro Re non è magrolino, ha invece un bel pancino”. Queste ultime parole non le disse ma le pensò soltanto. Mentre faceva ingresso nella sala del trono una gocciolina d’inchiostro turchino gli era andata a cadere sulla punta del nasino.
“Mio Sovrano”, proclamò a gran voce il ciambellano, “Oggi ci dobbiamo affrettare: i tre astrologi del regno le vogliono parlare”.
“Bene bene, ciambellano, disse soprapensiero il vecchio Sovrano dopo aver fatto cadere un ultimo gocciolino d’inchiostro turchino dalla finestra. E aggiunse: “Miei signori, per oggi il lavoro è finito”.
Non appena sentite le parole del Re, il pennino e la penna d’oca balzarono nella scatolina di cristallo, la serratura fece “click”. La scatolina volò nel cofanetto d’avorio e d’oro e il lucchettino d’argento fece “clack” mentre la boccettina d’inchiostro turchino era già sparita nel profondo tascone del mantello reale. Anche la pergamena si era arrotolata, infiocchettata e in un baleno si era addormentata.
“Bene, bene, benone”, disse il Re e ordinò: “Fate entrare gli astrologi”.
Il gran ciambellano posò il vassoio sulla scrivania di legno di rose e corse trafelato a chiamare gli astrologi che aspettavano. Poco dopo si sentì uno scampanio e uno, due, tre colpi alla porta. “Avanti!”, disse il Re spalmandosi il miele dorato sul pane tostato col coltellino ingemmato. I tre astrologi entrarono nella sala del trono. Portavano degli alti cappelli a punta dello stesso colore dei lunghi abiti a strascico, uno giallo, uno azzurro e uno rosso. “Sua Maestà”, dissero in coro, “dobbiamo farle un importante annuncio’. “Ebbene parlate”, disse il Re senza perdere il suo buon umore e senza smettere di far colazione.
“Questa mattina alle sei in punto”, estrassero contemporaneamente non si sa da quale taschino tre grossi orologi a cipolla, uno giallo, uno azzurro e uno rosso, “ovverosia circa mezz’ora fa, sul nostro regno è transitata una cometa” Così dissero tutti e tre insieme chinarono il capo con i loro cappelli a punta e si ritirarono. Il gran ciambellano di corte si chinò anche lui e li seguì mentre uscivano trascinando con i lunghi strascichi, uno giallo, uno azzurro e uno rosso, qualche ragnetto e qualche altro animaletto.
Appena gli astrologi furono usciti, il Sovrano, nonostante l’età avanzata, cominciò a saltellare prima su una gamba poi sull’altra e non stava in sé dalla gioia. Il suo umore era proprio alle stelle, anzi su una stella, la cometa che quel mattino aveva attraversato il cielo alle sei in punto. Richiamò il gran ciambellano e gli ordinò di preparare carrozza e cavalli e d’un baleno, curva dopo curva, discese dal colle aguzzo verso le casupole del villaggio che sorgeva ai piedi del colle. La carrozza si fermò proprio davanti all’ultima casupola. Il ciambellano andò a bussare:
“Toc, toc, toc.”
La porta sembrò aprirsi come per incanto da sola e il Re si trovò davanti a una piccola culla: c’era un bimbetto appena nato con due begli occhi turchini. Il Re guardò con gioia il piccolino, poi trasse dalle tasche del mantello regale la boccetta con l’inchiostro fatato, la scatolina di cristallo con la penna d’oca e il pennino e li depose accanto alla culla. Passando alle sei in punto sul regno del Re che amava le rime, la stella cometa gli aveva annunciato che nel villaggio, proprio a quell’ora, era nato un poeta. Così sentenziò a voce alta il Sovrano.
“Ma Sua Maestà, è una femmina!”, disse perplesso il gran ciambellano di corte che aveva parlato poco prima con la mammina della creaturina.
“Bene, bene, benissimo”, disse il Re felicissimo.“Oh quanta gioia mi darà perché poetessa diventerà!”
Racconto originale di Rossana Dedola
Illustration for the book A velha roupa nova do rei. Developed altogether with the Ivan Zigg and team of the Crama Strategic Design.