Il fratellino di Dalì
Ero davanti alla finestra non so da quanto tempo e fissavo un punto in mezzo al mare. Non mi ero nemmeno accorto che era entrato qualcuno nella stanza, poi ho avvertito una presenza accanto a me. Mi sono girato e ho visto che Ana Maria tutta vestita di azzurro era in mezzo alla stanza. Le ho detto: “Muchacha, fatti vedere”, e afferrandole una mano le ho fatto fare una giravolta su se stessa. “Che bel vestito”, le ho detto, “ti sei vestita di sprazzi di cielo”, poi l’ho accompagnata alla finestra e l’ho spinta davanti al davanzale: “Sporgiti, fissa quel punto” le ho indicato.
E lei ha posato il panno che teneva in mano e con le due colonne delle gambe ha piantato il corpo davanti al davanzale, il vestito aderente ha mostrato la possanza dei fianchi, del posteriore. La dea della fertilità, ho pensato. Era di spalle davanti a me, il vestito celeste, due righe azzurre lo percorrevano dall’alto verso il basso e un nastro lo cingeva sotto la vita. Mi sono allontanato sul fondo della camera, ho trattenuto il respiro e poi ho di nuovo rivolto lo sguardo verso di lei incorniciata a metà da quel rettangolo di luce. E ho aspettato, non so quanto nella penombra, lei non parlava. Fissava lontano, non so esattamente che cosa guardasse, non potevo vedere il suo viso, il capo leggermente rivolto verso sinistra, in lontananza proprio lì sulla sinistra al di sopra della testa vedevo una vela bianca in mezzo al mare, i capelli neri raccolti in una specie di coda le ricadevano sulle spalle. E mentre portava il peso del corpo sulla sinistra e sollevava una gamba puntando il piede contro il pavimento, i polpacci muscolosi, la camera lentamente si è tinta di azzurro.
Dal fondo del mare si è sollevato un lieve fiato d’alghe, di cavallucci marini e di conchiglie ed è penetrato dalla finestra. “Guarda, Ana Maria”, ho detto, “guarda, là il promontorio si riempie di luce“. E allora su quel lembo di terra ho rivisto la lapide con mio nome. Avevo cinque anni e mi avevano portato al cimitero a vedere la tomba del mio fratellino, e io dall’alto, da un punto del cielo, mi ero visto chiuso nella tomba. Avevo letto il suo nome e era il mio nome inciso sulla lapide. Da quei giorni caldissimi d’agosto in cui il sole a perpendicolo sulle pietre aveva cancellato tutte le ombre il tempo aveva cominciato a sciogliersi. Una luce abbacinante da deserto. Mezzo sciolto dal ramo secco di un albero pendeva come un sacco vuoto l’orologio della vita. Sabbia tutto intorno. La sabbia dei suoi primi giochi al mare a coprire tutto.
In quell’agosto mio padre di notte cercava tra le lenzuola riarse mia madre, lei lo evitava, si allontanava, si spostava verso l’angolo in cui rintanarsi e stare vicino al piccolo che se ne era andato. Lo cullava nel buio mentre mio padre premeva, spingeva, voleva rimetterlo al mondo, tale e quale. E in maggio sono nato io uguale a lui. Stesso nome, non un altro figlio, ma proprio lui.
Quel fiato di mare penetrato dalla finestra aveva preso a indugiare sulle vesti colore dell’acqua di Ana Maria, le annusava, le leccava. Una goccia cominciò a scorrere sulla parete e allora nel riflesso l’ho visto: il Salvador venuto dal mare, non era il mio riflesso, era il suo. Eravamo come due gocce d’acqua, ma solo quella era la sua goccia, la sua pupilla. “Non lasciare che te la feriscano”, ho implorato. “Chiudi la palpebra per sempre!”. Da quell’agosto il fratellino era rimasto senza cielo, lo diceva la lapide, il nome, le date, il mio nome. Io e lui per sempre chiusi sotto quella lastra di marmo da quell’estate bollente.
E allora, mi rivolgo a lei, mia sorella, che guardava sporgendosi dalla finestra: “Ana Maria non voltarti, fissa per me la terra, quel lembo di terra, lascia che si rifletta sul battente della finestra”. Sono andato a prendere una tela e un carboncino e ho iniziato a disegnare Muchacha a la ventana. Non so quanto siamo rimasti lì senza parlare.
Poi si è voltata, aveva diciasette anni, bella, occhi neri penetranti, intelligente, una scollatura pronunciata sul davanti. Ha detto: “Vedo che sei completamente pazzo, fratellino”.
Rossana Dedola